venerdì 20 febbraio 2015

Scuola di Fumetto - intervista

Scuola di fumetto 95 - Gennaio 2015




Parliamo di oggi, sì, ma delle tue partenze e del rapporto del tuo lavoro attuale con quello del passato.
Sei stato uno dei nostri esordienti, sul lontano n.5 di SdF. Un lavoro molto diverso da quello attuale, ma dove lo spirito non sembra molto cambiato.
La scelta delle strisce mi sembra la differenza più notevole rispetto alle tue odierne tavole spesso a vignetta unica. Narrazione a fumetti, sempre ma con ritmi e spazi molto diversi.
Da dove venivi, allora' E da che letture e autori di fumetto (infanzia compresa)?

La mia infanzia a fumetti significa le buste sorpresa da 1000 lire da cui uscivano fuori Braccio di ferro, Geppo, Trottolino, Felix, Soldino... ne facevo scorpacciate quando ero a letto con la febbre e mia madre me ne dispensava a pacchi. Poi è venuto il Giornalino che all'epoca trovavi solo in parrocchia, me lo compravano se andavo a messa! Lì ho conosciuto tantissimi grandi disegnatori, di cui ho collegato segno e disegno solo tanti anni dopo: Tacconi, Gaudenzi, Mattioli, Boscarato, Rossi... Poi Dylan dog nel 92 mi ha riavvicinato al fumetto e poco dopo la fulminazione con gli albi di Pazienza pubblicati dal Grifo, in contemporanea scoprivo Robert Crumb e allora ho pensato: “si possono raccontare anche ste cose con il fumetto?!?”

La tua presenza è stata subito su riviste e fanzine importanti: KeroseneStripburgerFrigidaire,  Inguine Mah!gazine, Ruggine. Tra queste a quali sei più legato? Per affinità o per momenti chiave...
Il fumetto autoprodotto degli anni 90 è stato sicuramente un passaggio importante, ho preso coscienza che potevo raccontare quello che davvero mi interessava, fino ad allora lavoravo per diventare un disegnatore “convenzionale”per testi di altri. Frigidaire era sicuramente la lettura più sconvolgente, sopratutto per le finestre che apriva sul mondo, stentavo quasi a credere a quello di cui parlavano. Una delle sorprese più gandi fu quando scoprii che il padre di Sparagna era nativo di Minturno, cittadina confinante con la mia, ed era una sorte di “santo” artista.


Ruggine, ancora attiva e vedo che c'è in uscita un numero "speciale" mi puoi dire qualcosa? ne sei coinvolto?
E' stata solo una collaborazione, ai ragazzi piacevano i miei disegni con un forte contenuto critico sulla tecnologia ed uno di questi calzava perfettamente con un numero della rivista con tematiche molto affini.


Che ruolo hanno avuto e possono avere le riviste, nel fumetto? E le fanzine in particolare?
La rivista come contenitore ha il pregio di convogliare energie ben precise, proporre dei contenuti particolari, seguire lo sviluppo di un gruppo di autori...Le fanzine ancora di più rappresentano una squadra, delle scelte forti e ben connotate, per chi le realizza inoltre sono la palestra migliore per farsi le ossa e mettersi alla prova con tutto quello che serve per realizzare un prodotto editoriale, fino a vendere la propria creatura quasi porta a porta. Le riviste come le fanzine segnano letteralmente il tempo, quelle importanti che uscivano in edicola hanno ormai ceduto il passo mentre per le fanzine il discorso continua, ancora oggi ne saltano fuori e puoi dire “oggi ci sono questi che fanno queste cose” e puoi seguirli per vedere fin dove arrivano...


E Lamette? Perché è nata e come avete collaborato tu e Simone?
La tua storia con Simone e Lamette Comics: è una esperienza ancora attuale o è legata ad un movimento e a un periodo storico preciso?
Lamette nasce come costola del sito che ha creato Simone dove prevalentemente si occupava ( e si occupa tuttora) di musica punk. La passione di entrambi per il fumetto e il radar puntato su tutto ciò che era punk ci ha portato a realizzare la rivista perchè avevamo realizzato che c'erano molti disegnatori che avevano a che fare con il punk... e così Lamette voleva cristallizare questa tendenza. Dopo le ultime due riuscitissime antologie a tema esclusivamente musicale, che hanno coinvolto 66 disegnatori italiani, ci siamo dati uno stop per occuparci dei nostri progetti personali. Abbiamo altre idee ma nessuna scadenza da rispettare, tutto resta in stand by...

Vieni dal punk, quanto l'esperienza di vita e di scelte ha influito sul fumetto? Quali sono i fini di un lavoro in quest'ottica, e che rapporto tra "lavoro" e creatività?
Il punk, un parolone di 4 lettere... Autogestione e autoproduzione culturale, due parole chiave, i contenuti più forti che restano asciugando il nichilismo e il ribellismo del punk. Capisaldi: rifiuto del mercato, abolizione del copyright, tematiche libertarie, critica verso la società civile, provocazione culturale. Per coerenza si operano spesso scelte molto difficili che sicuramente non pagano sul fronte della remuneratività, ma si arriva per forza di cose a dei compromessi se non si diventa dei perfetti kamikaze.


Prendiamo qualche opera: Campana (fatta assieme a Simone). Ci sono voluti otto anni per finirlo oppure è un’opera che si è evoluta insieme a voi due e che dunque si è trasformata?
Campana nasce come piccola autoproduzione di Lamette Comics e sopratutto come esperimento: 16 pagine pensate, scritte e disegnate a quattro mani, una struttura inusuale e per niente lineare. Ci siamo chiesti: un prodotto così può essere letto e apprezzato? Può funzionare? Il risultato è stato positivo e per questo abbiamo ampliato il progetto, stampandolo in due edizioni diverse grazie a Giuda edizioni.

L’autoproduzione è un'alternativa o una scelta? Ti capita mai di essere avvicinato da grandi editori? E il tuo rapporto con GIUDA, quanto è da autore/editore e quanto invece una forma paritaria di collaborazione?
I grandi editori ho provato ad andarci incontro ma finora non ne è venuto fuotri nulla. L'autoproduzione è una scelta praticabile e consigliata: grandi soddisfazioni, ci si mantiene allenati, si guadagna abbastanza se si realizza qualcosa di decente, si ha una libertà illimitata. Di contro la fatica è immane, la crescita del proprio pubblico è molto lenta ed anche la propria produzione ne risente in prolificità. Approciarsi a gli editori è necessario: sono professionisti e possono far crescere molto il tuo lavoro, se scelgono di pubblicarti vuol dire che credono in quello che fai, ed anche questo fa la differenza. Autoprodursi può rivelarsi molto autoreferenziale. Giuda è un piccolo editore e la nostra collaborazione è sopratutto il frutto di una lunga amicizia, nata comunque da una forte affinità.

Ma, parliamoci fuor dai denti, economicamente e praticamente, che ruolo ha un editore per te, quali vantaggi ti porta?
Un editore, se fa in buona parte parte il suo lavoro, fa crescere la tua visibilità e sopratutto la tua credibilità. In Italia gli editori che puntano sulla qualità hanno una struttura molto ridotta e non possono investire in promozione, di conseguenza i libri hanno meno possibilità di essere visti e comprati. In sintesi si guadagna molto poco a fronte del lavoro impiegato. I libri si vendono se li porti in giro, e in questo, chi viene dall' autoproduzione ha una marcia in più. Per circostanze ed anche per scelta io sono impegnato in molti fronti per fare quadrare il bilancio, anche se questo rallenta la produzione di libri.

La tua creatività si manifesta collaborando ai progetti più diversi. In un epoca dove gli autori passano molto del loro tempo lamentandosi su facebook del fatto che non hanno il tempo per fare quello che vogliono o a spiegare che non possono collaborare con tutti, tu come fai a partecipare a così tanti progetti? Come dividi il tuo tempo tra creatività, vendita, rapporti, fiere (quali) e tournée?
E' la parte più difficile della mia attività. Passo molto tempo a pianificare eventi e progetti, a coltivare rapporti. Spesso il tempo impiegato supera quello del disegno. Alle volte preferiresti che fosse il contrario, in questo modo però riesci ad uscire più spesso dalla tua stanzetta, essere un disegnatore tout court mi soffocherebbe in breve!

Il tuo fumetto è piuttosto anomalo, anche se ben comprensibile. Hai un rapporto con la narrazione disegnata che esalta le immagini, rispetto alle parole. Qualche riferimento? Qualche idea tua in proposito? Motivazioni per queste scelte?
Mi piace pensare alle incisioni rupestri, all'urgenza comunicativa degli uomini della preistoria, prima ancora del linguaggio scritto il disegno c'era già. E in quei segni arcaici c'era già tanto racconto e sopratutto la forte relazione dell'uomo con la natura. Dopo migliaia di anni il fumetto ha creato la sintesi che conosciamo. I fumetti senza parole, paradossalmente sono venuti dopo, un ulteriore sintesi probabilmente. Più immagini in sequenza che raccontano una storia sono di fatto un fumetto, il linguaggio è quello. Negli anni 20 del secolo scorso le chiamavano “wordless novels”, parliamo dei libri di Lynd Ward e Frans Masereel, storie che tra l'altro avevano una profonda impronta di critica sociale.

Ritieni in qualche modo "popolari" le tue opere? A chi ti rivolgi? C'è un pubblico del fumetto e un pubblico altro?
Popolari si, in un accezione di avvicinamento ad una natura profonda che appartiene a tutti, che abbisogna quantomeno di una riconsiderazione. Nei miei lavori il dato portante è la natura: tanto umiliata quanto viva e potente. L'allontanamento da essa ha scatenato una forte schizofrenia, bisogna riallacciare una relazione, trovare dei termini nuovi senza cadere in nostalgie sterili. Il pubblico del fumetto è potenzialmente interessato a tutto, ma non vedo nelle fiere delle occasioni propizie di confronto. Il pubblico altro è ovunque.

In particolare, come funziona la collaborazione con Marina, quella che sembra la più particolare e proficua? Questioni sentimentali non voglio approfondirle troppo, ma come è impostata la vostra collaborazione professionale? Avete spazi indipendenti e altri in comune... raccontaci un po'...
Con Marina divido casa, affetti e sopratutto viaggi ed esplorazioni. Da questi ultimi nascono i nuovi contatti che prendiamo in giro, dove poi ritorniamo per proporre i nostri laboratori di disegno e fumetto che si svolgono camminando e andando in bicicletta. C'è poi lo spettacolo della cantastoriessa che Marina ha messo in piedi grazie al materiale raccolto in questi anni, composto dalle sue canzoni e dai nostri disegni, pregni delle storie che raccogliamo. I nostri percorsi personali sono paralleli a quelli comuni e si incrociano continuamente, poi ognuno di noi porta avanti le sue attività fatte di libri, presentazioni, laboratori, mostre.

La vostra poetica ha un fine comune? Se dovessi dire in due parole che cosa fate e perché?
Il cuore del nostro lavoro è il paesaggio, quello umano, naturale, architettonico, e storico. Lo attraversiamo in solitario o in gruppo con i nostri laboratori. Cerchiamo di decifrare quello che accaduto, quello che rimane, quello che sta succedendo. Filtriamo tutto con il disegno, una pratica antica e connaturata che coinvolge tutti i nostri sensi. Siamo alla ricerca di pratiche e saperi di una relazione con la natura che quantomeno limiti lo sfruttamento e la distruzione. Spesso troviamo tracce fortemente radicate nel passato, altre volte incontriamo persone ed esperienze molto attuali che cercano nuove strade.

Il vostro segno è molto diverso, quello che sembra accomunarvi di più è il rapporto con la natura, avete anche abitato l'Appennino, ma la raccontate anche oggi, che vivete a Bologna. Qual è il tuo rapporto con la natura e la campagna? Lo hai scoperto da sempre o Marina in questo ha dato una spinta?
Io ho vissuto lungamente in una cittadina circondata da una grande bellezza che mi ha letteralmente imprigionato. La forte trasformazione di quei luoghi e la scarsa consapevolezza dei suoi abitanti hanno prodotto in me nel tempo una grande frustrazione che non riuscivo a focalizzare. Questo insieme ad altri motivi personali mi hanno indotto ad andare via in modo molto brusco. Con Marina ci siamo incontrati a Bologna che per noi è una base preziosa per le nostre attività, neanche lei è una grande cittadina (è nata sulle Dolomiti Bellunesi!) e così condividiamo una solida insofferenza. Quest'ultima è motivo della tensione costante che anima le nostre ricerche e le nostre fughe, alimentazione ideale per i nostri processi creativi. Per me è stato necessario sperimentare una dimensione più grande della mia città, ma vedo abbastanza impossibile andare a vivere in realtà metropolitane.

Arte e ambiente, arte e quello che ci circonda, sembra il tuo binomio attuale. Alberico in particolare sta incontrando, un notevole successo. Prendere coscienza di quello che succede alla nostra casa madre terra è una necessità o un fenomeno passeggero?
Diversi esperti hanno iniziato a chiamare la nostra era “Antropocene”, l'epoca del dominio assoluto dell'uomo sul pianeta. Sui disastri ambientali ci sbattiamo il muso tutti i giorni, è una realtà di fatto. Il progresso e l'innovazione tecnologica che hanno emancipato l'uomo dalla natura ci hanno portato fin qui. I più ottimisti pensano che con gli stessi strumenti possiamo rimediare ad ogni danno ed evitarli in futuro. Saremo più veloci a distruggere tutto definitivamente o troveremo prima dei rimedi peggiori dei mali? Da quando è iniziata la civiltà ogni passo in avanti ha richiesto un grosso tributo di sangue e sofferenza, e così vale anche per il pianeta. Non mi meraviglio se ci siano persone che non vogliano pagare questo tributo, con la propria salute e con la propria terra. Penso comunque a quanto siamo insignificanti per la storia di questo mondo, grandi cambiamenti climatici come ne sono avvenuti in lontane ere potrebbero spazzarci via immediatamente. In ogni caso vedere che ancora oggi come duemila anni fa ci siano uomini e donne che giocano sui destini degli altri esseri viventi mi porta istintivamente ad occupare una posizione ben chiara.

Hai trovato uno stile e insieme una tecnica molto particolari.
Derivati dall'incisione, dalla xilografia, arte popolare, ma interpretata oggi con mezzi moderni ma molto poveri. Ce la puoi spiegare (la tecnica) e dirci cosa ti ha portato in quella direzione?
Nella tormentata ricerca di un segno e di una tecnica che mi esprimesse al meglio, un giorno ho provato a graffiare dei supporti in acetato anneriti con della pittura acrilica. Ho iniziato proprio con Campana, coevo di Lynd Ward e Frans Masereel, e quel segno raccontava quindi al meglio l'epoca del poeta Campana. Rileggendo e approfondendo poi la lettura di quest'ultimo ho trovato dei forti paralleli con le mie inclinazioni: il camminare, il vagare sui monti, il provare a “riscrivere” il paesaggio. Da lì il passaggio alle altre tematiche di cui abbiamo parlato finora e stato una conseguenza naturale.

L'autoproduzione, le serigrafie, le stampe, tutto questo appartiene a un certo mondo alternativo al fumetto ufficiale. È piuttosto un mondo e un modo che hai scelto, o piuttosto uno stile legato al segno e alla mano?
La produzione delle stampe mette in circolo in modo immediato tutta la produzione che ruota intorno all'illustrazione, e qui ritorna il concetto di “popolare” di cui parlavamo all'inizio. C'è poi il discorso dell'artigianalità delle serigrafie e delle linografie che rimanda alla manualità che ritengo imprescindibile continuare a coltivare, l'avanzata del digitale sembra compromettere molto queste abilità. Finchè restiamo umani vorrei continuare ad usare le mani e non solo su una tastiera o un touch screen.

Ci puoi spiegare perché per te è così importante per poterti esprimere, anche senza colori o toni di grigio?
Io disegno prevalentemente in bianco e nero poiché amo la sua immediatezza. L'uso del colore è molto calibrato, quando anche lo faccio non riesco mai a trovare una forza come quella del bianco e nero. L'essenzialità dei mezzi e del segno conservano quell'aura arcaica e rozza che mi sembra un ottimo antidoto all'invadenza del digitale. Poi vengano tutte le sperimentazioni possibili, ci sono in giro tante cose meravigliose. Mi piace però pensare a cosa riusciremo sempre a fare con pochi mezzi a disposizione, a come siamo in grado di sopravvivere usando le nostre mani, il nostro corpo, il bagaglio istintivo che ci portiamo dietro.

La tua sembra una ricerca laboriosa e evolutiva. Che pensi del dono naturale del disegno, o invece dello sforzo quotidiano per conquistarlo?
Nel mio caso non credo di aver avuto un dono naturale, oltre alla passione ho dovuto faticare molto e continuo a farlo, un vero lavoro, che all'improvviso ti porta a risultati inaspettati. Mi piace questa magia del disegno, questa meraviglia immateriale non misurabile e non quantificabile da nessuno strumento. Una cosa umana, molto umana.

Perché si disegnano storie?
Perchè dobbiamo continuare a ricordarci da dove veniamo, tenere acceso un fuoco, preservare dei luoghi. Il disegno rimane il mezzo più immediato, resta uno dei tanti, che può aiutare tutti i sensi a rimanere svegli e a prendere coscienza della propria necessità. 

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